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Gli istituti religiosi e lo welfare italiano: cosa hanno fatto, cosa potranno fare al servizio degli ultimi

Prima che ci fosse lo welfare, c’era la Chiesa Lo ha ricordato lo studio “Per carità e per giustizia – Il contributo degli istituti religiosi alla costituzione del welfare italiano” presentato sabato 25 febbraio al Campidoglio a Roma.

Il volume può essere richiesto a padre Fidenzio Volpi, segretario generale CISM, via degli Scipioni, 256, 00192 Roma, pievolp@tin.it

Lo studio contiene, spiega il comunicato stampa, “studi esperienze e dati sulle innovazioni introdotte nei 150 anni dall’Unità di Italia dai religiosi e dalle religiose: una storia completa e documentata della assistenza in Italia dalla parte degli ultimi ed un quadro degli interventi e delle prestazioni ‘inventate’ dalla Chiesa e trasfuse poi, negli anni, nella legislazione sociale italiana. Quello che oggi è prassi comune e garantita, è stato anticipato dalla seconda metà dell’Ottocento dagli istituti religiosi”.

Ecco alcuni degli interventi e delle relazioni proposte alla presentazione

Al convegno hanno partecipato anche il ministro del welfare Elsa Fornero, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il presidente del consiglio comunale di Roma Marco Pomarici, oltre naturalmente ai presidenti di Cism e Usmi per gli istituti religiosi che del volume sono protagonisti. Ha partecipato anche Uneba, con il suo presidente Maurizio Giordano.

Nelle loro relazioni, Rossi e Pasini gettano anche lo sguardo al futuro del welfare ed al contributo anche futuro degli istituti religiosi.

Pasini sottolinea l’importanza di tenere collegate carità e giustizia: “i poveri non solo portatori di bisogni, ma anche e anzitutto soggetti di diritti”. E ribadisce la necessità di confermare la scelta preferenziale per gli ultimi, che “non sempre sono evidenti”. Infine richiama il valore della gratuità: “sarebbe triste che i servizi della Chiesa, per ragioni di ristrettezze economiche, fossero costretti ad escludere i poveri”.

Rossi sottolinea tra l’altro che il principio di sussidiarietà è efficacemente realizzato con l’integrazione tra pubblico e privato nella sola gestione degli interventi, bensì anche nella loro progettazione e verifica. Occorre dunque che gli enti del terzo settore siano in grado di contribuire – pronti anche, se necessario, a ridefinire la propria missione-, e che l’ente pubblico passi da gestore a regolatore dei servizi. Ma Rossi invita anche a superare la concezione dei diritti sociali come finanziariamente condizionati. Cioè: non “prima si raccolgono le risorse e poi si valuta se e come i diritti possono essere garantiti” bensì “prima ci sono i diritti, e questi vanno garantiti; a questo scopo si raccolgono le necessarie risorse”.

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