L’educazione dei minori è attribuita in primis ai genitori i quali hanno il diritto-dovere di educare, insegnare e mantenere i proprio figli (articoli 147 e 148 del Codice civile). Questo diritto che ha una base non solo naturale e biologica, ma viene riconosciuto anche a livello giuridico, quale fondamentale principio sancito dalla stessa Costituzione (art. 30).
Il diritto di educazione dei genitori, tuttavia, si affianca al diritto-dovere impartito allo Stato di assicurare gli strumenti necessari per rendere lo studio accessibile a tutti (art. 34 Costituzione), essendo anche la scuola un’ulteriore fonte di educazione ed insegnamento.
Sia il genitore che la scuola, pertanto, divengono due punti di riferimento per il minore (il minore trascorre nelle sedi scolastiche buna parte della sua giornata). Si rende così necessaria una collaborazione tra genitori e scuola-insegnanti, pur rispettando il campo di autonomia dell’uno e dell’altro.
Il problema, tuttavia, si viene a porre là quando le decisioni educative della famiglia contrastano con le scelte di insegnamento della scuola. Tipico esempio la scelta della scuola, a volte discussa e criticata dai genitori, di inserire un percorso di educazione sessuale nel programma di insegnamento.
In simili circostanze è necessario ben definire il confine tra l’autonomia della scuola, e di ogni insegnante, di determinare liberamente i programmi di insegnamento e il diritto dei genitori di intervenire per tutelare le proprie scelte educative, e quindi di far rispettare a sua volta la sfera di autonomia della famiglia.
Sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite – ordinanza del 5.02.2008 n. 2656 – che ha ben determinato il confine tra il campo di azione della scuola e il potere di intervento della famiglia.
La Corte, pur riconoscendo l’indipendenza e l’autonomia delle decisioni assunte all’interno della famiglia, decisioni che devono necessariamente essere rispettate, ha precisato che sussiste certamente un potere dell’amministrazione scolastica pubblica di svolgere la propria funzione istituzionale con scelte di programmi didattici ed indirizzi educativi, anche là dove ciò contrasti o comunque interferisca con le scelte educative, culturali o morali della famiglia. Ciò in riferimento non solo all’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole, ma all’insegnamento di tutte le materie scolastiche.
Può quindi verificarsi che sia legittimamente impartita nella scuola un’istruzione ed una formazione culturale in tutto o in parte non corrispondenti alla mentalità ed alle convinzioni dei genitori, senza che sia possibile da parte dei genitori porre il loro veto.
Tale principio prende in considerazione non solo la libertà di determinare i programmi scolastici e le modalità di insegnamento propria di ogni istituto scolastico, ma anche la libertà propria di ogni genitore di scegliere l’istituto scolastico a cui iscrivere il proprio figlio: una volta che un genitore ha scelto un determinato istituto, accetta anche le sue scelte didattiche.
Con ciò comunque, è bene precisare, non si vuole affermare che gli insegnanti hanno libero arbitrio di agire ed operare come meglio credono. Bensì devono basare le loro scelte didattiche su ciò che è meglio per gli alunni. E soprattutto sono tenuti a svolgere il loro programma di insegnamento in modo neutrale, ossia devono fornire al giovane le nozioni in modo obiettivo e libero da eventuali orientamenti politici, culturali o morali propri dell’insegnante o della scuola. Così facendo, ogni alunno sarà in grado di assimilare le informazioni acquisite a scuola, riportarle all’interno del modello di vita dettato dalla famiglia. E qui adattarle secondo i principi insegnati dai genitori e secondo le sue capacità e le sue inclinazioni naturali, costruendo così poco per volta la sua personalità.
avv. Paola Turri
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