Quando ci ammaliamo regrediamo fisiologicamente e psicologicamente: torniamo piccoli, pieni di ansie, aspettative e paure, bisognosi d’aiuto e protezione.
Nasce un’esigenza fortissima di affidamento, che però non sempre si concede a priori: il medico, per negoziare la fiducia, per informare e chiedere la collaborazione, ha bisogno di molto tempo, e molto frequentemente fatica a disporne, stretto com’è tra il dominio della tecnologia e la rigidità delle regole “aziendali”.
Parlare fa bene
Eppure il dialogo è terapeutico quando non è solo parole, ma anche capacità di ascoltare il malato, sforzandosi di capirlo, accertandosi di aver capito bene quello che aveva da dire. Ciò può ben realizzarsi durante l’anamnesi, momento centrale nel processo comunicativo, spesso unica vera occasione di incontro, da svolgere con il “cuore vigile”; o, nel caso del paziente ricoverato, durante il “giro visita”. Ma in questo caso il soggetto malato viene talora rappresentato come il “luogo della malattia” piuttosto che l’agente narrante la cui presenza e partecipazione sono fondamentali.
Il paziente non è una malattia, un organo colpito, bensì una persona dotata di corpo e spiritualità. Che soffre non solo per la propria malattia ma anche per i pensieri cui questa è correlata. E il malato deve poter percepire che anche il medico è una persona come le altre: competente, ma essa stessa con angosce, speranze, dubbi, vanità, ambizioni, pregiudizi, limiti, impotenza.
Diritti e doveri da ambo le parti
Il paziente deve saper imparare dal medico le informazioni sulla malattia e sulla cura, ma questi deve saper imparare dal paziente le informazioni su come lui la vive. Non c’è quindi da parte del paziente solo il diritto ad essere preso in cura, ma anche il dovere di contribuire ad accrescere, proprio come paziente, la scientificità della relazione terapeutica, che quando funziona non produce solo una cura, ma anche un sapere nuovo e condiviso, non codificato.
Due saperi che si sommano
La relazione medico paziente non è quindi un modo gentile di porsi, né un mostrare disponibilità e comprensione formale e distaccate. Bensì una vera e propria interazione tra sapere scientifico e sapere acquisito dai malati. Non e’ un rapporto materno, caritatevole, amicale, contrattuale, ma una sorta di patto scientifico e morale, una collaborazione che porta senza demagogia alla considerazione delle differenze di potere tra medico e paziente e dei rischi di reciproca sudditanza, conducendo verso un patto fiduciario, che aiuti tutti, medici paramedici e paziente, a sentirsi parte di una stessa equipe di cura in cui ciascuno ha un proprio ruolo e responsabilità.
E la fede?
A parità di professionalità e di impegnato interesse alle sorti del paziente, non penso si possa parlare di diversa relazione medico-paziente tra interlocutori laici o credenti, cosi come la fede non costituisce di per sé una motivazione in più per assistere i malati. La diversità sta nella interpretazione del lavoro e nel generale approccio alla vita.
Ma questo è tutto un altro grande discorso, che nulla toglie alla conclusione che la relazione medico-paziente è un’alleanza, un incontro tra due esperti: il medico che è l’esperto della malattia ed il paziente che è l’esperto della sua malattia.
Gabriella Zottarel, medico, Fondazione Care
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