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L’ammalato grave è ancora una persona?

I ricoverati negli ospedali, gli ospiti assistiti nelle case di riposo e nelle case di accoglienza delle più varie tipologie, così come gli stessi ammalati curati nelle loro abitazioni, o negli hospice soffrono delle più varie infermità; quelli degenti in ospedale per lo più soffrono di malattie di tipo acuto, o comunque ancora suscettibili di cure mediche, mentre gli altri possono avere patologie croniche, o problematiche sociali e relazionali particolari, che necessitano comunque di una presa in carico e di una presa in cura più complessa e articolata, continuativa e, spesso, senza possibilità neppure di miglioramento.

Queste persone possono avere acquisito, per malattia o per età, oppure avere fin dalla nascita un deficit parziale o totale delle facoltà mentali e cognitive; altri sono immobilizzati a letto, dipendenti in tutto e per tutto dal prossimo, gravati da ulcere da decubito, anchilosati, nutriti artificialmente, violati nel corpo da cateteri e sondini; in alcuni la malattia, o le malformazioni  con cui sono nati,  hanno  deformato  e abbruttito il corpo in maniera inimmaginabile.

Di fronte a tanta  devastazione, chi assiste e cura non può non porsi domande, sul perchè  del male innanzitutto. Ma un’altra domanda a volte può comparire, nel cuore di chi pur si prende cura di questi malati : è ancora un essere umano costui? che cosa gli resta della persona che era? Oppure, nel caso di  neonati o feti malformati: è  mai stato una persona umana?

In effetti non sono pochi gli studiosi di bioetica che non ritengono corretto chiamare persone i soggetti gravati da deficit psichici e/o fisici come quelli descritti sopra.

Essi, invece, definiscono la  persona umana come un soggetto dotato di consapevolezza del mondo e di autocoscienza, autonomo e autosufficiente, in grado di ragionare, e capace della libertà dell’ agire morale.

In base ad una tale definizione, questi bioeticisti non considerano persone molte categorie di malati, come, ad esempio, i dementi, i malati di mente, i deboli di mente, coloro che sono in stato (cosiddetto) vegetativo, etc.

Ma, a ben guardare, non rientrerebbero in questa definizione di persona neppure i bambini, i vecchi affetti da confusione mentale, i depressi gravi, e neppure, paradossalmente, i pazienti durante l’anestesia generale, tutti noi quando dormiamo, i traumatizzati in stato di coma reversibile, o, poniamo, gli individui durante l’uso di droghe.

In realtà la definizione di persona sopra esposta è molto riduttiva; essa, a ben guardare, fa coincidere la persona umana con l’adulto sano. Inoltre valorizza, dell’essere persona, solo la componente mentale e relazionale, senza tenere conto della dimensione corporea. Da ultimo, essa confonde le qualità e le funzioni di qualcuno con quel qualcuno, registra le disabilità di qualcuno senza cogliere  l’evidenza di quel qualcuno corpo vivo.

Le conseguenze pratiche di questa visione bioetica della persona umana (che non fa coincidere la persona umana con l’essere umano) si sono potute concretamente vedere, per fare un esempio da tutti conosciuto, nel caso di Terry Schiavo, intenzionalmente fatta morire di fame e di sete in quanto considerata una non-persona.

In realtà la persona umana coincide con l’essere umano, poiché la sua natura risiede nella sua origine: è essere umano colui che nasce da altri esseri umani, e tale è fin dal concepimento, e tale resta finchè il suo corpo vive.

Quelli che ci troviamo a curare e ad assistere, menomati anche gravemente nel corpo e/o nella mente, sono persone. Persone ammalate.

dott. Nazzareno De Nardi, Fondazione Care

 

Tra due settimane sarà pubblicato su www.uneba.org un approfondimento scientifico su questo tema  e un commento a partire dal bel libro di R. Spaemann “Persone. Sulla differenza tra ‘ qualcosa’ e ‘qualcuno’”, Laterza, Roma, 2005.

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