L’avvocato Paola Turri, collaboratore di www.uneba.org , propone un articolo sulla violenza familiare. Approfondisce, in particolare, i reati di cui può essere vittima un minore e chiarisce quali comportamenti dei genitori da un punto di vista giuridico, sono leciti e quali no, o non più.
Presentiamo qui la prima parte, incentrata sul reato di “Abuso dei mezzi di correzione”. Seguirà, la prossima settimana, la seconda, incentrata sul reato di “Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli”.
Introduzione
Le violenze familiari sono, ai giorni nostri, un problema sempre più frequente, poiché lo stress e le tensione che la società moderna provoca, sono di norma “sfogati” all’interno delle mura di casa, ossia in famiglia.
Gli operatori sociali, pertanto, spesso si trovano a dover lavorare con famiglie “problematiche”, in cui può risultare difficile individuare fino a che punto una determinata situazione possa essere considerata “semplicemente problematica” e quando invece, essa sfoci in una delle svariate forme di violenza familiare, tanto da dover intervenire per proteggere le vittime di tali violenze.
Spesso, infatti, le violenze all’interno della famiglia non si manifestano fin da subito in modo palese ed aggressivo, ma si celano dietro a condotte subdole, al limite della liceità, tanto da rendere difficoltoso, anche per l’operatore, capire se e come intervenire al fine di far cessare tali comportamenti, solo apparentemente “innocui”.
A tal proposito può essere utile conoscere le forme di tutela del minore che offre la legge, secondo le recenti interpretazioni giurisprudenziali, per capire, da un punto di vista giuridico, ciò che è considerato lecito, e ciò che, invece, non lo è più.
In particolare si segnalano i reati di
- abuso dei mezzi di correzione (art. 571 del codice penale)
- maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 572 c.p.)
Abuso dei mezzi di correzione
Il reato di “abuso dei mezzi di correzione” è, ad avviso della scrivente, una delle forme di violenza sui minori più difficile da individuare, poiché si manifesta in circostanze ambigue, ove l’adulto opera “apparentemente” per il bene del minore, sconfinando, però nell’uso dei mezzi educativi.
Tale fattispecie, infatti, consiste nell’eccedere nell’uso dei mezzi di correzione, ossia nell’utilizzare tali mezzi in modo sproporzionato, tanto da mettere in serio pericolo l’incolumità del soggetto passivo e procurargli un danno alla persona.
Presupposto ineludibile affinché si possa delineare il reato di abuso dei mezzi di correzione è la presenza di un rapporto di fiducia tra il minore e l’adulto. Cioè un rapporto dal quale scaturisca per l’adulto un dovere (anche solo di fatto, o limitato in un breve lasso di tempo) di educare, curare, istruire e vigilare sul minore.
Chi può commettere il reato
E’ bene precisare, in proposito, che tale tipo di rapporto non è limitato al solo rapporto genitore/figlio, ma va individuato anche in tutte le altre circostanze in cui il minore si trovi a stretto contatto con un adulto che ha in dovere quanto meno di vigilare sullo stesso. Di particolare rilevanza si segnala la figura del maestro/educatore. Infatti risponde del reato di abuso dei mezzi di correzione la maestra che assume un atteggiamento aggressivo e iroso nei confronti dei bambini, giungendo al punto di pronunciare insulti e infliggere umiliazioni prive di giustificazione (Cass.Pen. Sez. VI sentenza 14.10.2008 n° 38778).
Non conta solo cosa fai, ma come
Un primo aspetto problematico concerne l’individuazione di quelli che sono e posso essere considerati i mezzi di correzione leciti e consentiti. La giurisprudenza a tal proposito si è dimostrata vaga, limitandosi a definire leciti i tradizionali mezzi di correzione ed escludendo quelli abnormi quali l’uso di cinghie.
In proposito, la giurisprudenza ha affermato che in realtà nel reato in questione ciò che conta, al di là del mezzo utilizzato (che comunque deve essere lecito), è la forma di utilizzo del mezzo di correzione. Quindi è l’uso eccessivo e sproporzionato di tale mezzo che va condannato. Per eccesso si intende non solo un’intensità eccessiva della forza fisica esercitata (per esempio uno schiaffo troppo violento), ma anche l’uso di un gesto modico che reiterato più volte provoca una malattia nel corpo o nella mente (Cass. Pen. Sez. V n. 2100 del 18.1.2010)
La Suprema Corte di Cassazione con sentenza 34674 del 13.09.2007 precisa, che, sebbene non debba essere ritenuto lecito l’uso della violenza fisica a scopi educativi, si ritiene, tuttavia, ammissibile tra i mezzi di correzione solo “una vis modicissima, per cui non possono ritenersi preclusi quegli atti di minima violenza fisica o morale, che risultano necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva ed insolente; integrano, invece la fattispecie dell’art. 571 c.p (…) l’uso in funzione educativa del mezzo lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che sconfina nell’abuso, sia in ragione dell’arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell’eccesso nella misura, senza tuttavia attingere a forme di violenza”.
Quando l’abuso causa “malattia mentale”
Da ultimo, è doveroso precisare che, in tema di abuso dei mezzi di correzione, la nozione di malattia nella mente, si estende fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo: stato d’ansia, disturbi comportamentali, insonnia, depressione (Cass. Pen. Sez. VI n. 16491 del 7.2.2005).
In particolare si segnala che l’esercizio dei mezzi di correzione con modalità afflittive e deprimenti o umilianti per la personalità del minore, può comportare un lesione alla salute mentale del minore intesa come incapacità del minore di costruire e sviluppare in modo libero e sereno la sua maturità e personalità (si segnala in proposito la sentenza Cass. Pen Sez. VI n. 42648 del 19.11.2007, in cui una madre è stata condannata per il reato di cui all’art. 571 del codice penale per aver costretto la propria figlia a scrivere ripetutamente su di un quaderno la frase: “io sono una ladra, non devo rubare”, provocandole un trauma psichico in considerazione delle particolari circostanze in cui il fatto si è verificato ed alle modalità di applicazione della misura inflitta).
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